“Mi dicono tutti che non avrò più una vita mia” mi dice una quasi-mamma in uno dei tanti incontri della rassegna “I primi mille giorni”.
Sorride, sperando che io stia dalla sua parte e le dica che, invece, la sua vita non cambierà. E io sto dalla sua parte, memore di tutte le volte che anche a me è stata rivolta questa frase, ma forte anche di quello che è successo, o ho fatto succedere, dopo. Quando l’altro è arrivato, si è intrufolato prepotentemente nello spazio personale e di coppia. E sorrido anch’io, in realtà sogghigno un po’, perché so che dirò delle cose che a volte lasciano a bocca aperta le mamme, ma fanno tirare un sospiro di sollievo ai papà, che probabilmente pensano che io sia una mamma degenere o almeno un po’ strana. D’altronde sono una psicologa, e si sa, gli psicologi sono tutti un po’ strani.
La vita non è più quella di prima, certo. Anche quando decidiamo di stare con un’altra persona non è più quella di prima. Anche quando cominciamo a lavorare non è più quella di prima. La vita non è mai quella di prima, il cambiamento è tutti i giorni, è dietro l’angolo, accompagna, per fortuna, le nostre esistenze. Ma siamo noi a governare il cambiamento. E a decidere cosa fare della nostra vita. Non il bambino. Certo, soprattutto i primi mesi sono scanditi dai ritmi che lui/lei ci impongono, bisogna garantirgli una presenza costante e sicura, soddisfare i suoi bisogni fisiologici e di sopravvivenza nella fase più delicata e vulnerabile, in cui è totalmente dipendente dalle nostre cure. E certo, la fatica dei primi tempi probabilmente non lascia spazio ad un’altra vita, non ci sono le energie, non ci sono pensieri che non siano dedicati al bambino, manca uno spazio mentale oltre che quello fisico. Ma superata questa prima fase è possibile riprendersi i propri spazi, le proprie abitudini, i propri interessi.
Perché non bisogna dimenticare di essere persone, prima ancora di essere un ruolo (mogli, mariti, madri, padri…). E in quanto persone abbiamo diritto di soddisfare anche i nostri bisogni, a volte anche prima di quelli dei nostri figli. Non siamo al loro servizio, ce ne prendiamo cura, è diverso, e per prenderci cura adeguatamente di loro, dobbiamo prenderci cura prima di tutto di noi stesse e anche della coppia coniugale. E in questo ha un grosso ruolo il marito/padre. Ma solo se la madre gli permette di averlo. E gli permette di “rompere “ la simbiosi madre – bambino, di prendersi il suo spazio con il figlio ed “estromettere” la madre da questa relazione, che non vale meno. Semplicemente si crea un po’ più tardi, per quei ritmi fisiologici di cui sopra.
Un genitore che si riprende il suo spazio ed esige rispetto dei propri bisogni da parte del figlio, anche piccolo, gli sta insegnando che non esiste solo lui/lei, che gli altri hanno esigenze che vanno rispettate, che ci sono dei tempi e degli spazi che non possono essere totalmente suoi, anzi nei quali lui/lei non hanno accesso. Frustrante? Certo. Ma è da qui che si impara a rinunciare, ad aspettare, a condividere. E a rispettare. L’altro, i suoi bisogni, le sue emozioni. Non solo. Il bambino può seguire i genitori. Nel vero senso della parola. Seguirli al ristorante, nella gita domenicale, in vacanza, rimandando magari il trekking sull’Himalaya. Non è necessario rinunciare, è sufficiente rimodulare.
E prima di diventare mamme fiere di donarsi completamente ai figli, sicure che solo con noi staranno bene e che solo noi saremo in grado di accudirli come si deve, perché siamo le MAMME, (in realtà stressate, affaticate, e spesso incattivite col resto del mondo, che può continuare la propria vita libera e disinvolta), è meglio riprendersi libertà e disinvoltura, imparare a delegare ai papà o ad altre figure di riferimento sicure, confidando nelle loro capacità di accudire il bambino, in modo diverso dal nostro certo, ma non per questo meno competente.
Mamma non è sinonimo di onnipotenza. Per fortuna, perché l’onnipotenza è un fardello davvero pesante da trasportare.
Natalia Sorrentino, psicologa e psicoterapeuta